AlessandroMongili@LisandruMongile

venerdì 30 aprile 2010

AGIRE, NON REAGIRE. QUALE IDENTITA’ PER I SARDI?


Testo di un discorso tenuto a Bono (Goceano) il 28 aprile 2010 in occasione de sa Die de sa Sardigna, nel corso del convegno dal tema “Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale fra questione rurale, lingua e letteratura sarda”, promosso dall’associazione “Frontes”.

"Il mare regna incontrastato ... La costa Smeralda (cliccabile, ndr) con la sua perla, Porto Cervo, ne è un esempio e alle dolci sfumature di colore del suo mare unisce la storia e la cultura di una regione con tradizioni antiche ad una vita notturna allegra e colorata. Porto Cervo deve il suo nome all'incantevole insenatura che lo limita proprio come le corna di un cervo ed il Porto Vecchio è considerato il più attrezzato porto turistico del Mediterraneo. A nord della Baia si trova il nuovo Porto Cervo Marina, affascinante e suggestiva località dove è sicuramente da visitare la chiesetta di Stella Maris, al cui interno sono conservati un dipinto di El Greco e un organo del seicento. Porto Rotondo è una località anch'essa rinomata. Affacciata sull'ampio Golfo di Cugnana, è popolata da ville e piazzette incastonati in una magnifica natura. Chi al mare preferisce la montagna potrà andare alla scoperta della regione del Gennargentu").

La Sardegna sul sito www.italia.it, del Ministero del Turismo, citata in www.sardegnademocratica.it


E’ con grande emozione che intervengo a Bono, paese natale di Giovanni Maria Angioy, a 202 anni dalla sua morte, in occasione de sa Die de sa Sardigna 2010, e di questo invito vi sono molto grato perché lo considero un grande onore.

Giovanni Maria Angioy è stato un uomo, un patriota sardo, che si è speso sino alla fine per il bene comune, per la democrazia e per la dignità del popolo sardo, sino a morire in esilio a Parigi, nel Marais, in povertà e in decoro, insistendo sino alla fine presso le AutoriText Box: Scrivi per inserire testotà francesi, dal Direttorio a Napoleone, perché si decidessero ad intervenire in Sardegna a sostegno dei patrioti, al fine di liberare la nostra Isola dai Piemontesi e dal giogo feudale, similmente a quanto tentò vanamente Emilio Lussu con la sua “diplomazia clandestina” presso gli Alleati nel corso dell’ultima guerra. Purtroppo, al massimo massacratore di patrioti sardi (si calcola siano stati 3000 ad essere mandati a morte nel corso della repressione sabauda successiva ai moti angioyani), il Re Carlo Felice, ancora oggi è impropriamente dedicata una grande arteria e un pomposo monumento nel centro di Cagliari, mentre un autentico patriota come Giovanni Maria Angioy è spesso ignorato anche da molti Sardi.

Ma, si sa, nella coscienza comune dei Sardi noi siamo stati solo spettatori passivi della nostra stessa storia (Brundu 2009, 1), che sembra fatta solo da dominazioni straniere. Una damnatio memoriae ferrea colpisce chiunque eroda la dipendenza e voglia fare dei sardi i protagonisti della propria storia, chiunque si batta per incrementare le pratiche di autogoverno dei sardi (ivi, 3), da Giovanni Maria Angioy sino al tentativo di erodere la dipendenza sarda svolto dalla Giunta Soru.


COME CI CLASSIFICHIAMO, NOI SARDI?


Come mai noi sardi giudichiamo noi stessi in un modo così severo? Come mai annulliamo il nostro protagonismo, la nostra stessa storia e le sue pagine più belle? In tutte le tradizioni politiche, in tutte le sensibilità culturali prevalenti sino ad ora, sembra condivisa l’idea indimostrata che ci sia qualcosa di sbagliato in noi. Nell’intercettazione di una telefonata avuta con un politico nazionale e con un affarista oggi in prigione, il Presidente Cappellacci si esprimeva in questi termini:


Fusi: «Io sono innamorato di quella terra lì». (Cappellacci ride). Un po’ meno dei sardi...».

Cappellacci: «Guarda... sfondi una porta aperta... perché ho la consapevolezza del vero grande limite della Sardegna: noi sardi. E quindi...» (ride ancora) I due si salutano, non prima che il presidente, ricambiato da un laconico «grazie», abbia detto: «Spero di poterti conoscere presto di persona». La conversazione tra Fusi e Verdini riprende. Ma parlano ancora di Cappellacci.

Verdini: «C’avrebbe delle aragoste pronte...». (L’Unità, 18 febbraio 2010)


In molte altre situazioni esiste questo sentimento di vergogna per la propria condizione, vista come anormale rispetto allo standard di riferimento. Si tratta di una situazione comune ad ogni minoranza, non solo etnico-linguistica, ma anche religiosa, sessuale, o di altra natura. La studiosa americana (chicana) Gloria Anzaldúa (1987, 65), nella sua analisi della popolazione ispanica nativa del Sud degli Stati Uniti, rimasta intrappolata nel lato settentrionale della nuova frontiera, a seguito delle guerre con il Messico della fine del XIX secolo, osserva gli stessi fenomeni che noi notiamo in Sardegna. In particolar modo, è comune a chi si ritrova a essere diverso per condizione in un insieme che descrive se stesso in modi standard. Così, i chicanos sono americani a tutti gli effetti, ma non per cultura e lingua materna, ragion per cui si vergognano delle proprie tradizioni e adottano modi di vivere imitati per acquisire prestigio. Essi sono particolarmente controllati con se stessi quando parlano. Se incontrano altri spagnoli, si vergognano del loro spagnolo, e preferiscono parlare in inglese (ivi, 80), similmente a me che, qui a Bono, esito a parlare nel mio cagliaritano, e preferisco un più neutrale italiano. Sento che in me, ripeto, “c’è qualcosa di sbagliato” (Butler 2006, 67) a parlare casteddaio e quindi sardo a Bono, pur non arrivando personalmente a volermi sbarazzare completamente della mia lingua e, come avviene sempre di più in Sardegna, perfino del mio accento.


Ma questo è un fenomeno ben presente e generale, che non deve essere giudicato come una “colpa” né tantomeno una scelta di chi lo adotta. E’ tipico ad esempio di chi vuole acquisire un’identità socialmente riconosciuta e ha paura di essere emarginato proprio perché la sua condizione lo spinge ad essere ambiguo, a non possedere esattamente né un codice né un altro. Ad essere sardo e parlare male il sardo, ad essere italiano e parlare l’italiano con un forte accento sardo. Molti studiosi e studiose delle identità ambigue, ad esempio quelle sessuali, hanno messo in rilievo come questo fenomeno sia generale. Non si può stare in mezzo, ci dice la filosofa americana Judith Butler, è grande la pressione perché ci si sbarazzi della lingua e dell’accento che sono oggetto di stigmatizzazione (ivi, 75-76). Altrettanto ci insegna Harold Garfinkel, il quale in un classico della sociologia, Agnese, ci spiega come la maggior parte delle persone hanno diritto a vivere normalmente e a conformarsi all’ordine legittimo, pur di andare avanti, e di adottare a questo proposito una serie di accorgimenti mimetici che gli facciano somigliare il più possibile al modello di come si deve essere ufficialmente in un certo contesto (Garfinkel 2000, 73-74). Egli definisce queste strategie con il termine di passing, che è in Sardegna pratica linguistica diffusissima, e anche qui si accompagna con il disprezzo degli atteggiamenti non conformi e per l’ambiguità identitaria e le trading zones (ivi, 67), come esemplifica un episodio accaduto qualche tempo fa, che ha dato luogo a una voce fondata sul fatto che tutti dessero per scontato che avere un accento sardo e pronunciare alla sarda i termini sia ridicolo:


"Le sue due telefonate sono state registrate, trasformate in un file leggero e spammate, come si dice in gergo, a centinaia di indirizzi e-mail cagliaritani che a loro volta l'hanno girata ad altre centinaia di mail. Il gioco è uscito dalla provincia e ha contagiato tutta la Sardegna con rivoli nazionali e internazionali tanto da fargli perdere la sua originalità e tramutarlo in leggenda metropolitana. C'è persino chi l'ha messo nella suoneria del telefonino" [1].

Francesco Abate, “Salvatore Zedda, il tormentone vìola la privacy”, L’unione sarda, 14 marzo 2005.


Non appare invece ridicolo l'inglese storpiato dall'italiano, o qualsiasi altra lingua storpiata dall'italiano, com'è normale in un rapporto gerarchico fra due lingue. Ma ogni sardismo è ridicolo per chi è nell’orizzonte esistenziale del passing. Dunque, niente autolesionismo o colpa, ma semplicemente necessità di sopravvivere in un mondo in cui la propria lingua e il proprio accento non solo non sono riconosciuti, ma sono anche oggetto di dileggio. In questo senso appaiono completamente fuori luogo alcune interpretazioni, sempre molto diffuse, che usano il solito meccanismo del blaming the victim, di incolpare la vittima, dalla “vocazione all’autolesionismo” (Dettori 2009), alle costruzioni teoriche del sardismo storico, richiamate giustamente da Franciscu Sedda, per cui saremmo una nazione abortiva destinata per sua natura alla subalternità e all’autocastrazione (Sedda 2009, 11).


RINOMINATI DAGLI ALTRI


Il problema dell’identità dei sardi sembra essere quello di essere edificata principalmente sulla base delle “rinominazione”(pereimenovanie) compiuta da intrusi esterni (Lotman 2000, 117), che si compie cioè utilizzando idee, immagini, concetti e descrizioni che abbiamo raccolto da altre descrizioni, storie, classificazioni, repertori e altre narrazioni scritte da viaggiatori esterni, conquistatori, esteti decadenti o amministratori stranieri. In queste descrizioni la nostra cultura viene costruita come un insieme coerente e tipologizzata a partire da una posizione di dominio, e non sempre in modo benevolo. In una lettera a Titino Melis, recentemente ripresa da Franciscu Sedda, Michelangelo Pira riassumeva l’immagine della cultura sarda sviluppata nel corso del fascismo come corrispondente a “ignoranza” e “barbarie” anzi, per usare le sue forti parole, a “merda” (Sedda 2009, 8). Tale immagine è fortissima nel senso comune, a prescindere dallo schieramento politico e dall’orientamento ideologico. In un sorprendente testo scritto dall’intellettuale bittese emigrato Giovanni Dettori (2009), possiamo ritrovarne una lettura meno greve ma interamente sovrapponibile. Molti sardi hanno così profondamente assorbito nelle loro coscienze gli stereotipi elaborati da posizioni conquistatrici, che se ne fanno corifei, e arrivano ad affermare cose indimostrabili come, cito a caso, che “il sardo è una lingua che non inventa” (Dettori 2009), per sua natura.


Questo non deve sorprenderci perché ogni costruzione di identità a partire da intrusioni dall’esterno ha caratteri simili, come hanno messo in luce soprattutto le studiose femministe, che hanno dovuto decostruire un edificio monumentale e molto più stratificato e oppressivo del nostro, cioè l’identità femminile. Qui mi rifaccio soprattutto alla lezione di Butler, che mette in evidenza due caratteri importanti di queste costruzioni. Il primo corrisponde alla coerenza e unità delle costruzioni delle identità dei dominati. Coerenza e unità significa che in tutte le loro parti, in tutti gli eventi, la cultura dei gruppi a cui viene assegnata un’identità riproduce gli stessi effetti, in quanto funziona come un sistema con tratti organici (Butler 2006, 19). Nel nostro caso, ai Sardi è dunque assegnata un’essenza che riproduce in ogni evento della loro vita gli stessi tratti. Questi tratti possono essere anche positivi (come la testardaggine, la coerenza, l’onestà e così via) ma (è questo è il secondo carattere delle costruzioni identitarie dei dominati identificato da Butler) sono principalmente caratterizzati da una mancanza (lack). Questo è evidente per le donne, descritte sempre in base alla differenza essenziale rispetto ai maschi, ma si può applicare anche agli altri gruppi dominati, in quanto i gruppi dominanti (i maschi, gli Italiani, i bianchi, i ricchi, ecc.) percepiscono se stessi come pura razionalità e misura di ogni altro comportamento, mentre assegnano ai dominati, in primis alle donne, lo stigma dell’irrazionalità, della vicinanza alla “natura” e all’”istinto”, del “disordine” (ivi, 13, 38), e basterebbe pensare a Grazia Deledda a questo proposito per trovare moltissimi legami con la costruzione della narrazione identitaria dei Sardi. Noi siamo soprattutto visti come un “popolo senza”, dalla conversazione del Presidente Cappellacci sino alle retoriche sviluppiste dei sociologi e dei politici esaltati dalla programmazione e dai modelli di sviluppo. Ora, il problema è che sul piano empirico questa “coerenza” e “unità” delle culture non solo non ha fondamento ma è stato seriamente messo in discussione dall’antropologia contemporanea, soprattutto a partire dal lavoro di Clifford Geertz. Tuttavia, essa ha successo, soprattutto nel senso comune, perché rende intelligibile la diversità, quella delle donne o anche quella dei sardi (ivi, 23). Noi non siamo semplicemente dominati, ma siccome abbiamo dei problemi con una cultura “arretrata”, “barbara” e così via, è pure giusto che altri più maturi e in gamba di noi ci comandino. Insomma, il problema siamo noi sardi, direbbe il Presidente Cappellacci. Tutta questa costruzione fornisce ragioni per dominarci ancora, ma soprattutto fornisce idee e parole per “comprenderci”, per interpretarci come fenomeno coeso e unitario.


NECESSITA’ DEL PASSING


Nel suo lavoro generoso di decostruzione di un’immagine autostereotipizzata dei Sardi, Franciscu Sedda si lancia in una genealogia del tradimento di noi stessi, che trova il suo apice nella critica spietata, motivata e per molti versi fondata dell’Autonomia sarda. Non solo del periodo autonomistico, che può esser fatto durare sino al termine della giunta Palomba e quindi al dominio dei partiti tradizionali (sino al 1999), ma della stessa idea di Autonomia, che viene fatta corrispondere con la necessità, per i sardi, di “fare gli italiani” (Sedda 2009, 12), quindi con la italianizzazione profonda della Sardegna (Brundu 2009) e con la furia autodistruttrice rispetto al nostro paesaggio svenduto, alle nostre case tradizionali abbattute, alla nostra lingua abbandonata in favore di un passing di massa, della banalizzazione di un mimetismo sociale. Di questo si imputano le élite, a partire da Emilio Lussu. Egli è stato sicuramente un pensatore politico provinciale, ma nondimeno un grande uomo politico e a mio parere non merita certo tutta questa severità, anche perché non ha fatto altro che esprimere il senso comune di tutti i sardi colti del Novecento.


In realtà si imputa ai sardi di essere colpevoli di una situazione perfettamente normale, cioè di essere consapevoli della situazione ma non della natura della situazione (Sassatelli 2000, 15), di essere presi in una situazione data e di non essere (stati) in grado di superarla. Si imputa a Michelangelo Pira di avere detto che “dopo tutto siamo Italiani”, ma si chiudono gli occhi di fronte al fatto che dopo più di duecento anni noi non possiamo non essere anche italiani, cioè gli si imputa il fatto di avere riconosciuto che la nostra situazione è ambigua nel presente storico. In altre parole, si imputa ai sardi di essere in un presente storico ibrido e ambiguo, e di non radicarsi solamente in un’origine pura e al 100% sarda. Si tratta di una posizione indifendibile perché nega la concretezza dell’esistere a favore di una idealità dell’essere, mai attingibile, mai verificabile, mai descrivibile. Se è vero che ci sono casi estremi, che alcuni generalizzano, in cui “si decide di essere italiani con fredda ragione” (Dettori 2009) è pur sempre vero che le persone concrete devono descrivere la loro vita ricorrendo principalmente a motivazioni ammesse nei discorsi condivisi con gli altri (Sassatelli 2000, 19), cioè nelle narrazioni esistenti e circolanti nel momento in cui si vive. Nessuno ha infatti accesso a narrazioni trascendenti assolutamente vere, se non nel discorso religioso. E nelle narrazioni novecentesche disponibili all’epoca c’era poco posto per motivazioni molto diverse da quelle utilizzate nei discorsi delle élite sarde. Non è un caso che solo Antonio Gramsci riuscisse solo in parte a trascenderle (Sedda 2009, 11). Ma si tratta in assoluto del maggiore intellettuale sardo del XX secolo, e di un pensatore assolutamente poco provinciale e, per molti versi, marginale rispetto alle élite sarde, al loro senso comune e alle loro ambiguità. E’ proprio l’ambiguità della nostra identità sarda e italiana in modi disuguali ma coesistenti, insomma è proprio la nostra diversità che non è pensabile e dicibile facilmente, proprio perché non si fonda su posizioni narrative, ma sulla concretezza della nostra storia, di tutta la nostra storia, anche di quella della dipendenza, dell’ibridizzazione con altre culture e con altre identità, e su meccaniche di dominio che hanno teso a ripulire la Sardegna dalle sue diversità, accomunandole in una costruzione identitaria con il segno meno da abbattere.


Se si passa poi dalle élite alle persone ordinarie, il mimetismo, la necessità di razionalizzare la propria vita all’interno di una narrazione “allineata” con le aspettative dominanti (Sassatelli 2000, 27), deriva dalla necessità, per poter sopravvivere nella vita quotidiana stessa, di essere ammessi come “normali” nella vita sociale, di poter passare (passing). Farsi passare da italiani normali non è tradimento o abbandono delle radici, ma un modo che si impara facendolo, per imitazione, al di fuori di intenzionalità o scelte (Garfinkel 2000, 71), non diverso da quello che possiamo osservare ogni giorno negli extracomunitari immigrati che procedono nello stesso identico modo in questi ultimi anni. Significa solo sopravvivere in un contesto ambiguo, in cui però la nostra lingua, i nostri codici non hanno valore, non hanno prestigio, non danno potere e talvolta neanche di che sopravvivere.


INDIPENDENZA DELLE COSCIENZE O RECUPERO DI UN’IDENTITA’ RADICALMENTE DIFFERENTE?


Nessuno può ergersi a giudice di chi pratica il passing, perchè, di fronte a un ordine legittimo, tutti hanno il diritto di vivere normalmente e dunque di conformarsi alle attese di comportamento dominanti (ivi, 73-74). Il passing, lo ripeto ancora, corrisponde banalmente all’imitazione di comportamenti dominanti che regolano la vita quotidiana, a una necessità di sopravvivenza nella vita quotidiana più che a una strategia. Questo non significa che tutta questa normalità sia condivisibile, in quanto spinge i Sardi ad adattarsi a un’immagine di sé costruita con gli occhi di chi ci domina e ci ha dominati. Il passing che tutti pratichiamo in Sardegna è infatti non esattamente la nostra italianizzazione, ma qualcosa di più ambiguo, corrisponde cioè all’eliminazione dai nostri comportamenti di quelle differenze rispetto alle aspettative dominanti che sono considerate inaccettabili, a partire dal parlare in sardo. Infatti, l’ordine dominante non solo si presenta come l’ordine naturale delle cose, ma soprattutto come un ordine moralmente superiore rispetto a quello “barbaro” della cosiddetta tradizione sarda (Garfinkel 2000, 47). Essere sardi infatti non è solo avere un’identità, ma è soprattutto una condizione in cui si entra con la nascita e si esce con la morte e a cui si può sfuggire solo con l’emigrazione. Le narrazioni identitarie non toccano l’essere sardi, ma il come si è e si deve essere sardi in un presente storico determinato.

A questo proposito sembrano del tutto inutili le lunghe, contraddittorie, invadenti e ripetitive narrazioni che riferiscono l’identità sarda a un’essenza, a un’ontologia che ci caratterizzerebbe sub speciem aeternitatis, dal Nuraghe a Marco Carta, per dire, senza possibilità di scampo. E’ chiaro che, ripartendo in questo da Marx, dobbiamo assumere come punto critico di partenza per le nostre riflessioni e per la nostra azione civile non immaginari punti iniziali della nostra storia o caratteri invarianti dei nostri comportamenti e dei nostri vissuti, anche perché difficilmente ne troveremmo anche uno solo che non sia discutibile, ma il presente storico con tutte le sue ambiguità, anche identitarie (Butler 2006, 7, 10).


RESTITUIRCI LA DIFFERENZA


Coloro che vivono con difficoltà la nostra ambiguità identitaria sottolineano giustamente come in questo stato attuale della coscienza collettiva dei Sardi si sia costituita culturalmente dunque un’identità fondata su alcune regole dei discorsi che distinguono il dicibile (autonomia in politica, italianità linguistica, criteri di gusto musicali convenzionali non sardi, mode, gastronomie, uso del tempo libero, orientamenti politici a scelta nel quadro nazionale) come campo che può comprendere quasi tutto ma non l’indicibile, cioè ciò che viene stigmatizzato come “arretrato”, “barbaro”, “primitivo”, cioè sardo de souche. Questa esclusione del sardo de souche si è costituita lentamente attraverso una serie di atti repressivi (ivi, 89), dalle punizioni scolastiche alla repressione fascista del sardismo, ma anche grazie alla pratica quotidiana del passing e al diffondersi della cultura di massa in epoca recente (in realtà molto più porosa della cultura promossa dall’istruzione centralizzata). Questa identità ambigua e repressiva ha, agli occhi della maggior parte delle persone, un carattere di “naturalezza”, sembra cioè “normale” vivere così, sradicando da se stessi tutti i caratteri di “sardità” come modo per accedere alla accettazione sociale (ivi, XXXI). Questo dispositivo che ho cercato qui di descrivere produce, come esito, il fatto che proprio ciò che cerchiamo di nascondere della nostra condizione con il passing, e proprio ciò che ordinariamente viene represso o sanzionato, cioè i caratteri giudicati troppo “sardi” dei nostri comportamenti (e in primis la lingua), si ritrova a costituire la nostra differenza, la nostra malinconica pretesa di identità. Ora, proprio questo insieme malinconico di espressioni linguistiche, aspirazioni politiche, criteri di gusto e simbologie è frutto del dominio, e si è formato per sottrazione rispetto al modello standardizzato che ci viene imposto dall’ordine dominante. Le cornici istituzionali all’interno delle quali oggi viviamo sono repressive in quanto permettono di individuare e di definire la nostra differenza, ma non di esprimerla (Sassatelli 2000, 20). Noi possiamo possedere duecento dizionari di lingua sarda e perfino mettere dei cartelli con i nomi di luogo in lingua sarda per le strade, ma mai potremmo rivolgerci a uno sconosciuto in un bar cittadino in questa stessa lingua. L’espressione, è indicibile e inesperibile. La nominazione, secondo modelli classificatori tratti dalle scienze, sì.

Questo processo viene ben riassunto da Franciscu Sedda con due espressioni, secondo cui “avere un’identità è essere nominati”, ma noi viviamo nell’impossibilità di nominarci (Sedda 2009, 2-3), nella necessità di usare le “rinominazioni” che di noi stessi ci offrono gli stranieri e chi ci domina. Tuttavia, queste visioni non corrispondono, a mio parere, all’interezza del processo di costruzione dell’identità, poiché non tengono in considerazione l’aspetto incarnato delle identità, le pratiche identitarie, ma solo i discorsi attraverso i quali noi descriviamo l’identità. Infatti l’identità non è solo discorso, ma anche “ripetizione e rito, naturalizzata in un corpo” (Butler 2006, XV). Cioè è costitutivo dell’identità anche un insieme di atti, di gesti, di enactment, che è quel processo attraverso il quale modelli o discorsi diventano pratiche quotidiane o rituali. Nelle nostre vite, noi ripetiamo per anni, riesperiamo riti identitari in pubblico e nella vita privata, usiamo una lingua, sviluppiamo preferenze ecc., che corrispondono a queste “nominazioni” identitarie, e senza le quali nessuna identità può avere una base relazionale e empiricamente tangibile, concreta (ivi, 185, 191).


Altre minoranze si sono ritrovate in questa impasse e hanno reagito nel solo modo che ci è dato. Esso corrisponde prima di tutto non tanto a rivendicazioni mitologiche, quanto all’accettazione (liberatoria e semplice) della nostra diversità. Occorre sviluppare un lavoro che ognuno di noi è chiamato a compiere per liberarsi dal rigetto della parte negata di noi stessi, la parte sarda, per liberarsi dalla vergogna, per liberarsi della negazione (Anzaldúa 1987, 107). In questo senso accanto al lavoro che spetta ad ognuno di noi, e che corrisponde a una lotta interna alle nostre coscienze (ivi, 109), è assolutamente necessario accompagnare questo passaggio con atti pubblici, politici e civili o semplicemente collettivi che conducano alla “restituzione” collettiva di quella parte di noi stessi che ci viene negata dalle costruzioni identitarie dominanti oggi (ivi, 108), fondate come si è detto sulla produzione della nostra differenza e sulla negazione della sua espressione.

Ritengo che per riequilibrare le nostre identità e per liberarle dalla malinconia siano importanti sia le politiche che rafforzino il nostro autogoverno che azioni rituali e simboliche, come anche una presa di coscienza che però corrisponda a forme di enactment e non si risolva solamente in sterili rivendicazioni o in cambi di bandiere. Bisogna radicare la restituzione della parte negata di noi stessi in pratiche.


L’EMPOWERMENT CHE CI SPETTA


Se noi dobbiamo porci l’obiettivo dell’empowerment della nostra comunità (Sedda 2009, 3), cioè del suo rafforzamento politico, economico, spirituale e sociale, un obiettivo che in tanti condividiamo profondamente come unico modo per uscire dalla nostra situazione disagiata, non basta quindi “rinominare” noi stessi, passare solo per il discorso e la rivendicazione. Ma occorre agire sul nostro vissuto. Possiamo certo seguire le vecchie strade piene di sangue del riconoscimento di un fondamento ontologico della nostra identità, da ricercare in chissà quale principio lontano o in chissà quale bandiera pura, oppure più saggiamente possiamo sviluppare un agire diverso fondato sul superamento della negazione di parti della nostra condizione. Se ricorriamo alla reazione al dominio attuale inventandoci una nuova pura ontologia come una nuova ingiunzione normativa, e la installiamo nel discorso politico come fondamento necessario, allora corriamo il rischio scorgibile già ora di schiacciare chi vogliamo liberare (Butler 2006, 203), cioè noi stessi. Possiamo agire invece sul piano delle strutture di significazione e dell’enactment, dell’indipendenza delle coscienze, della lotta per la restituzione, della rivendicazione del diritto a che la nostra condizione storica non venga negata perché imprevista per il discorso dominante, dell’identità come possibilità di azione e come apertura a un futuro che non possiamo sapere e che non è necessariamente definibile nelle forme che ci immaginiamo a partire da discorsi a fondamento ontologico.

Per questo, è necessario rompere con l’idea che ad essere sardi corrispondano una serie di comportamenti chiaramente definibili, come nel discorso negativo che ci domina. Essere sardi, come essere qualsiasi cosa, è essere ambigui, ibridi, è essere molte cose assieme, nelle pratiche. E’ solo nei discorsi che questo mondo opaco diventa chiaramente distinguibile, classificabile, ma lo è solo perché ci serve capirlo, interpretarlo. Siamo sempre ambigui e ibridi rispetto ai modelli ideali con i quali ci descriviamo (Sassatelli 2000, 35). Per questa ragione è necessario avere molta tolleranza per l’ambiguità (Anzaldúa 1987, 100), accettare di parlare un sardo non proprio corretto e di parlare due dialetti diversi assieme, accettare la nostra italianità, il nostro essere europei e sempre più cittadini del mondo, assieme alla nostra contemporaneità, accettare insomma il fatto che la vita si discosti sempre dai modelli ideali. E questo, proprio perché rivendichiamo ogni lato della nostra condizione umana, e ci battiamo anche perché il suo lato negato, quello sardo, venga restituito.

Rispetto all’adesione entusiasta allo sradicamento da noi stessi di tanti intellettuali e politici sardi (esemplarmente, Dettori 2009), mi piace qui riprendere una testimonianza di enactment di Boris Pahor, il grande scrittore italiano di lingua slovena candidato al Nobel per la lettratura. Durante il fascismo, nella nera repressione della diversità linguistica in Italia, Pahor si recò a Capodistria dove si pose l’obiettivo di avviare la sua formazione slovena. Trasferendo in comportamenti il rifiuto della negazione, Pahor così descrive il suo personale enactment, che conduce attraverso pratiche concrete (e non solo discorsi) a una modifica delle identità personali e a un loro riequilibrio libero da negazioni e da malinconie per il perduto passato:

“... leggevo qualsiasi libro nella mia lingua , senza distinzione e senza selezione, perché era difficile procurarsi un libro in sloveno... Con la mia scarsa conoscenza della lingua letteraria, inciampavo in continuazione in parole che non capivo. Cominciai ad appuntare su un quaderno i termini difficili da cercare nel vocabolario. Ci misi impegno e ostinazione, ma il solo fatto di trascrivere le parole per me significava perfezionare la mia conoscenza dello sloveno. Quelle letture mi fecero innamorare della mia lingua e della mia letteratura”. (Pahor 2009, 33)


IDENTITA’ LINGUISTICA TWIN SKIN CON L’IDENTITA’ SARDA


Il brano di Pahor mi dà la possibilità di sottolineare un aspetto che credo fondamentale. Se infatti c’è una parte più negata dell’insieme delle negazioni e delle espunzioni che riguardano la nostra condizione di sardi, questa è la lingua. In nessun paese civile butterebbero a mare un monumento della cultura così elevato come la lingua sarda. E qui lo stiamo facendo, ogni giorno. Il terrorismo linguistico microfisico di cui siamo vittime, che ci sommerge di paura e di vergogna per il nostro stesso accento è pericoloso non solo politicamente ma anche individualmente, in quanto riduce il senso di sé (Anzaldúa 1987, 80). Le politiche dell’identità in Sardegna o passeranno attraverso la lingua o rimarranno allo stadio di nominalismi alla fine conformisti e ininfluenti per il cambiamento della nostra condizione. Quando noi saremo liberi di non tradurre il nostro sardo e di passare da una lingua all’altra in ogni situazione della nostra vita in Sardegna avremo superato la negazione della parte sarda di noi stessi e potremo fondare una politica identitaria non più limitata alla tutela ma caratterizzata dalla azione creativa. Questo, principalmente, perché è attraverso la lingua che la nostra identità collettiva si radica in pratiche e si radica in abilità corporee, cioè investe allo stesso tempo la nostra appartenenza a una comunità e il nostro corpo. Bloccare questa appartenenza e la libera espressione di queste abilità corrisponde a una forma di mutilazione. Fare politiche dell’identità connotate linguisticamente significa fare politiche che coinvolgano le persone e le loro vite. Significa cambiare realmente il nostro mondo e renderlo meno passivo e malinconico. Significa mutare un’atmosfera culturale e sviluppare la creatività collettiva.


CONFLITTO, ESPLOSIONE E AZIONE CREATIVA


Conosco bene il tipo di reazione che questa posizione può provocare. Imbottiti di vetero-marxismo, perfino gli assessori di Forza Italia credono fermamente che il dossier della lingua sia secondario o, come un tempo si diceva, un problema di sovrastruttura. Dettori arriva ingenuamente a sostenere che il mistilinguismo sia “bieco”, mettendo in luce i tratti autoritari delle generazioni che ci hanno preceduto, intrise di fascismo e di novecentismo. In fondo, tutte le élite ancora forsennatamente abbrancate alle loro posizioni direzionali vedono di sbieco la circolazione, gli ibridi, la trasformazione. Preferiscono i dizionari dei dialetti locali a forme innovative di creatività linguistica. Ora, il meccanismo che fa vivere ogni cultura è invece quello della trasformazione del proprio nell’altrui (Lotman 2000, 119), cioè proprio la traduzione, l’ibridazione, la metamorfosi. La circolazione. Questo timore, se vogliamo, è comprensibile, proprio perché di fronte a una situazione di conflitto culturale chi ha una visione autoritaria del mondo fondata sulla “necessità” e sull’idealizzazione dell’ordine sociale vive le situazioni, come la nostra ibride e ambigue, con la “sensazione aspra della sua insufficienza e contraddittorietà interna” (ivi, 65). Questo perché si pensa che al modello di negazioni di parte della nostra condizione che oggi ci immalinconisce e opprime si possa rispondere solamente attraverso la reazione, che dovrebbe consistere non nella restituzione di ogni parte della nostra condizione identitaria, ma nella negazione di altre parti, ad esempio della nostra italianità, come in un gioco a somma zero. Ma, al contrario, reagire contro un’oppressione non vuol dire limitarsi al gioco a somma zero, e quindi a dipendere da ciò contro cui si reagisce (Anzaldúa 1987, 100), come in una coppia immalinconita dalle incomprensioni in cui non ci si riesce mai a separarsi o a divorziare. Significa invece agire, attraverso pratiche personali e politiche di restituzione del lato negato della nostra condizione identitaria, e soprattutto attraverso l’enactment. Il conflitto culturale - come quello che la Sardegna ospita da più di un secolo fra i modelli identitari autoritari creati dalla nation building italiana e dalla costruzione di una riduttiva identità nazionale spogliata delle diversità e le condizioni storiche delle nostra identità sarda - è un’occasione incredibile di esplosione creativa, e crea non gioco post-adolescenziale fra vincitori e vinti ma nuove condizioni, cioè un fascio di possibilità imprevedibili di cui finora si sono avvantaggiati tutti gli artisti sardi che, in forme diverse, partecipano di questo “nuovo rinascimento” espressivo degli ultimi anni, non a caso tendenzialmente mistilingue.


TOLLERANZA PER L’AMBIGUITA’


In questo senso, noi non abbiamo bisogno di purezza, poiché la cultura non è e non sarà mai uno “spazio ordinato”, ma un insieme di repertori incoesi dai quali noi peschiamo strumenti utili per le nostre strategie d’azione, per la nostra sopravvivenza nella vita sociale (Lotman 2000, 63, Geertz). Abbiamo bisogno di amore per noi stessi e di tolleranza per tutte le ambiguità che caratterizzano la nostra condizione. Gloria Anzaldúa, la studiosa e poetessa chicana a cui spesso mi sono riferito qui, esalta ad esempio come simbolo della condizione del suo popolo, diviso fra il Messico e il Sud degli Stati Uniti, la Vergine di Guadalupe, icona cristiana che riprende simboli aztechi e unisce, nelle loro diversità, ambiguità, ostilità talvolta nella loro mestiza, tutti coloro che partecipano di una condizione (52). Sarebbe il caso che anche noi abbandonassimo i sogni mitologici, tollerassimo le nostre ambiguità anche simbologiche, e tornassimo ad occuparci, con lo stesso spirito pratico che caratterizzò Giovanni Maria Angioy, del nostro concreto empowerment.


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI


Anzaldúa, Gloria (1987) Borderlands/La Frontera. The New Mestiza, San Francisco, Aunt Lute Books.

Brundu, Sergio (2009) “Il negazionismo dei Sardi. Autonomismo e Sovranità”, www.sardegnademocratica.it, 8 novembre

Butler, Judith (2006) Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, New York-London, Routledge Classics 2006.

Dettori, Giovanni (2009) “Diaspora e lingue. Considerazioni inattuali”, www.sardegnademocratica.it, 5 novembre.

Garfinkel, Harold (2000) Agnese, Roma, Armando Armando (ed. orig. Passing and the Managed Achieving of Sex Status in an “Inter-Sexed” Person, New York, Prentice Hall, 1967).

Lotman, Jurij M. (2000) Semiosfera, Sankt-Petersburg, Iskusstvo-SPb.

Pahor, Boris (con Mila Orlić), (2009) Tre volte no. Memorie di un uomo libero, Milano, Rizzoli.

Sassatelli, Roberta (2000) “Presentazione”, in Garfinkel, cit., pp. 7-44.

Sedda, Franciscu (2009) “A Telltale Preface. Contradictions of a Self, Wounds of a Culture”, in S. Montes e L. Taverna, Forework and Book Reviews in Social and Human Sciences. Interdisciplinary Approaches to Texts and Cultures, Tallin, Tallin University Press.


[1] Prima telefonata (testuale): «Buonasera, allora sono Salvatore Zedda di Ortacesus, ho sollecitato di mandarmi le mail la passaword del flat notturno salv punto zedda chiocciola tiscali punto it. Ancora a... aspetto. Allora? Che cosa sono... dobbiamo fare? Eh? Se non posso entrare con la posta elettronica dò la disdetta eh... non scherzo eh. Buona serata». E poi in chiusura: «Rinci fazzu ficchiri». Seconda telefonata: «Sollecito nuovamente». Poi si rivolge a qualcuno in casa: «Cittudì pagu pagu». E riprende: «Sollecito nuovamente sono Salvatore Zedda di Ortacesus: vorrei la passaword eh... di supermail flat notturno salv punto zedda chiocciola tiscali punto it. Non poss... non poss... ho mandato un email per niente, allora se c'ho supermail che cosa... eppure col flat notturno ci entro in internet eh... eh non posso accedere alla posta.. eh non è possibile.. eh oh come fare? » (http://www.girodivite.it/article.php3?id_article=1967). L’uso del sardo in una telefonata a un call center e la pronuncia sarda del termine password ha provocato la diffusione a valanga di registrazioni, commenti, ironie, basata sull’attesa data per scontata che i riceventi dei messaggi condividessero il giudizio ridicolo espresso verso l’accento sardo e l’uso del sardo in un contesto giudicato inadatto. È il meccanismo tipico delle dicerie e delle barzellette, che si diffondono perché si pensa che il ricevente condivida i pregiudizi di chi diffonde il messaggio.

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